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Descrizione

Nel settembre del 1792 la repubblica francese dichiarò guerra al nostro re Vittorio Amedeo III alleato con l’ Austria. In quello stesso anno la Savoia e gran parte della contea di Nizza caddero in mano nemica e già nell’anno successivo la linea difensiva si stendeva sulle Alpi.
Nel 1794 la lotta divenne più accesa e fu favorevole ai Francesi che occuparono con presidi alcune delle nostre alte vallate mentre i nostri soldati ripiegarono verso Ceva.
Più vicino a noi i nostri soldati resistevano tenendo i colli di Mindino, di Casotto, della Navonera e della Balma sopra Frabosa i cui contrafforti abbracciavano le valli Casotto, Ellero e Corsaglia.
Nell’ estate del 1794 nei nostri paesi si tentò una leva in massa ma, nonostante si combattesse con coraggio e valore i Francesi erano ormai alle porte.
La difesa del paese riguardava tutti e anche in San Michele ciascuno aveva la propria preoccupazione: chi forniva fieno e paglia alla cavalleria, chi preparava alloggi per le milizie e chi cercava di ricavare il massimo profitto dai suoi prodotti: il grano infatti già saliva a prezzi mai visti prima.
Scarsità di viveri, forzato servizio militare, alloggi di soldatesche opprimevano il paese e nell’agosto del 1794 agli affanni si aggiunse anche una malattia contagiosa che si propagò dal paese alle soldatesche.
La causa fu individuata nelle fosse e concimaie tenute liberamente sulla pubblica via in quella calda stagione. Il sindaco e i consiglieri, con il sostegno della giunta di sanità di Mondovì, provvidero a far rimuovere quella fonte di contagio.
Nel novembre del 1795, dopo un breve periodo di sospensione delle armi, i Francesi vinsero una grande battaglia nei pressi di Loano e già nell’aprile del 1796, con a capo il generale Bonaparte , invasero le nostre regioni portandovi ulteriore scompiglio.
Con le vittorie di Dego e Montenotte il Bonaparte separò i due eserciti alleati, l’austriaco e il piemontese, e contro quest’ultimo avanzò in Piemonte.Il nostro generale Colli, nonostante la vittoria della Pedaggera sopra Ceva, temeva un accerchiamento e, lasciato un forte presidio nel forte di Ceva, si ritirò verso San Michele sulla linea del Corsaglia.
Schierò il centro del suo esercito in San Michele e sulla Bicocca ; prolungò poi l’ala sinistra verso est fino a Niella e al Tanaro e l’ala destra da ovest per il colle del Buon Gesù verso Torre e le Alpi, sulla sinistra del Corsaglia, che in quei giorni era gonfio di piogge.
La via principale da Lesegno, dove il 18 aprile il Bonaparte si era acquartierato, si dirigeva per la pianura verso San Michele e vi entrava attraverso il ponte costruito assai basso su palafitte e legnami quasi a filo d’acqua. La strada poco oltre il ponte saliva verso le case sulle alte rive del fiume.
Questo ingresso venne rinforzato dal Colli con due batterie mentre al di là del ponte alcune squadre volanti si opponevano al nemico che dalle alture di fronte alla Bicocca stava già scendendo nella stretta pianura che precede il villaggio.
Da queste colline, il mattino del 19 aprile, il generale Serrurier irruppe di fronte al villaggio. Le squadre schierate oltre il fiume riattraversarono il ponte ed opposero una ferma resistenza. Si resisteva anche a destra verso i monti e a sinistra tra Niella e Castellino tanto che verso mezzogiorno il Serrurier disperava di poter forzare il blocco.
Alcuni soldati francesi tentarono senza successo di guadare il fiume al di sotto del ponte ed alcuni di loro annegarono travolti dalle onde.
Un’altra schiera risalì il fiume e giunse dove uno stretto canale d’ irrigazione era stato gettato sul fiume nel luogo dove ora sorge il ponte della ferrovia.
I soldati lo attraversarono e sbucando dall’ altra estremità del villaggio assalirono all’ improvviso i nostri che si arrestarono sconcertati.
Il Serrurier approfittò della sorpresa e, attraversato il ponte, entrò nel villaggio mentre i nostri soldati, stretti tra due fuochi, furono costretti ad arrendersi. Vennero fatti prigionieri e imprigionati nella casa Quarelli.
L’avvocato Quarelli, uscito per affrontarli, era stato ucciso sulla porta della sua casa.
I Francesi, inebriati dalla insperata vittoria si sparsero per il villaggio dandosi al saccheggio e alle violenze.
Nel frattempo un gruppo di settantatrè granatieri del reggimento Christ erano stati lasciati indietro dai soldati francesi ormai esaltati dalla vittoria.
Questo gruppo, comandato dai giovani fratelli Schreiber estremamente valorosi, riprese coraggio e senza esitare irruppe verso il borgo combattendo corpo a corpo contro quanti nemici incontravano.
Benché malconci e ridotti a ventiquattro sopravvissuti giunsero nella piazzetta davanti a casa Quarelli e riuscirono a liberare i prigionieri.
Cresciuti così di numero e di coraggio ricacciarono i francesi al di la del ponte.
I nemici a questo punto, credendo che la compagnia di granatieri formasse la testa di qualche forte colonna, non seppero riorganizzarsi e vennero dispersi dopo un’altra furiosa battaglia all’arma bianca.
Il reggimento Savoia fanteria che aveva combattuto alla Bicocca scese e si unì ai granatieri. Assieme liberarono il villaggio, inseguirono per breve tratto i francesi ricacciandoli tutti oltre il fiume e tornando indietro tagliarono il ponte.
Il giorno 20 trascorse tra scaramucce e finte manovre tra i due eserciti e nella notte, dopo un consiglio di guerra tenuto al castello, venne deciso di ripiegare su Mondovì.
Il giorno 21 si combatté l’ aspra battaglia del Bricchetto e il 28 a Cherasco venne segnata la pace.
In giugno i nostri paesi tornarono per breve tempo sotto il re Carlo Emanuele IV .
Nel dicembre del 1798 il re fu costretto, da intrighi segreti e aperte violenze dei repubblicani, a lasciare i suoi domini di terraferma e a rifugiarsi in Sardegna.
Contro la Francia stavano avanzando nel frattempo gli eserciti austriaci e russi. Ai piedi delle Alpi marittime e degli Appennini stavano accampati gli eserciti imperiali e di fronte a loro, sulle alture e nelle valli c’erano i francesi repubblicani. La striscia di terra tra i due eserciti venne battuta e sommersa dalle due opposte correnti.
Mondovì, San Michele e gli altri paesi vicini furono travolti da questi tumulti e ridotti in condizioni di estrema sofferenza aggravata dalle pesanti tasse e dalla mancanza di raccolti.
Si ricordano le gravi imposizioni sui redditi dell’arciprete Perano, su quelle del teologo Fontana e su quelli ancora di Donna Irene Quarelli.
Per maggiore strazio si aggiunsero le malattie infettive che decimarono la popolazione. Gli abitanti del luogo da milleottocento erano scesi allora a milleduecento o poco più.
Il nuovo secolo cominciò con Bonaparte primo console e poi con Bonaparte imperatore. Fu un periodo di servitù fino al 1814 e di luttuose partecipazioni alle sue imprese guerresche ma anche di nuovo ordine e di un certo progresso in mezzo al trasformarsi di antiche istituzioni.
Anche nel villaggio di San Michele andarono perse parecchie opere e istituzioni antiche ed altre se ne sostituirono. Scomparve l’umile e glorioso ponte antico sul Corsaglia e rovinò la chiesa vecchia che gli sorgeva vicina; fu diroccato il castello e si spensero gli ultimi marchesi.
Altre opere invece prosperarono: furono aperte delle nuove strade e venne edificato un nuovo ponte.
Il vecchio ponte era ancora nelle stesse condizioni in cui si trovava da secoli antichissimi: molte volte distrutto dalle piene ma sempre ricostruito.
Era stato abbattuto per l’ultima volta il 19 aprile 1796, tagliato dai nostri soldati, e poco dopo ricostruito in fetta secondo l’ordine imperioso del Bonaparte.
Questo ponte antico andò perso pochi anni dopo per ragioni differenti ma si può supporre che il Bonaparte, intimandone il frettoloso rifacimento, suggerisse di ricostruirlo più alto e più solido. Il luogo fu individuato più a valle tra il rialzo su cui sorgeva l’antica chiesa e il punto dove le sponde del Corsaglia si avvicinavano maggiormente l’una all’altra.
Proprio in quel luogo, nel 1809 su disegno dell’ing. Theriat, un nuovo ponte fu edificato sopra alti pilastri su cui poggiavano lunghe e grosse travi e con i parapetti di legno.
Per ordine di un così grande personaggio della storia si era così rifatto per l’ultima volta il ponte antico di San Michele e costruito il nuovo che preparò quello odierno più bello e robusto, a due archi e tutto in muratura.
Non si può negare che Bonaparte fece aprire molte e spaziose vie e in seguito diede stimolo e aiuto per mantenerle e migliorarle, ovviamente nel proprio interesse e non per amore del popolo. La nuova via e il nuovo ponte affrettarono la distruzione delle chiesa vecchia che già nel 1662 era in pessime condizioni; nel 1697 era quasi interamente abbandonata e priva di arredi; nel 1760, sotto l’arciprete Maja, la chiesa fu interdetta perchè in condizioni indecenti. Nel 1772 fu riaperta al culto e a volte vi si celebrò la messa per i defunti, trovandosi la chiesa vicino al cimitero.
Se ne decretò la totale demolizione nel 1809 perché una testata del nuovo ponte si appoggiava al rialzo roccioso sul quale sorgeva.
La decisione di demolire questa antica chiesa causò non pochi tafferugli.
Esisteva infatti nella chiesa una pietra sepolcrale del sacerdote Mongardi, vissuto nel 1500. L’allora sindaco, un Mongardi per l’appunto, ottenne dal prefetto di Mondovì l’ordine di ritardare la demolizione per permettere il trasporto altrove della tomba di famiglia.
I lavoratori, con l’ indole tipica dei sanmichelesi, ignorarono l’ordine e continuarono nella demolizione. Ne seguì una baruffa in cui non mancarono atti di violenza. Il sindaco mandò allora la guardia nazionale e volle il caso che al suo arrivo gli operai stessero dando fuoco ad alcune mine. La guardia, credendosi assalita, sparò contro i lavoratori ma sia per buona sorte sia per la poca abilità dei tiratori, nessuno rimase ferito.
Il fatto sembrava più grave di quanto in realtà non fosse e ne nacque un gran trambusto tra la gente. Accorsero la guardia nazionale da Vico e i gendarmi da Mondovì. Il sindaco Mongardi fu prima trattenuto agli arresti in casa sua e poi destituito dall’incarico. La causa finì davanti al consiglio di stato dell’impero francese che però vietò di citare in giudizio il sindaco per questi fatti.
Così come per il ponte, anche per la fine della vecchia chiesa intervenne l’opera di Napoleone I.
Sul principio del 1800 si spense anche la famiglia dei marchesi e rovinò il castello. Il poco o nulla che rimaneva degli antichi privilegi venne spazzato via dal turbine della rivoluzione
Così tramontò quel castello antichissimo, sede in passato di tante feste, di ampie sale e di arredi sontuosi. Della duplice cerchia di muri, delle porte, dei ponti levatoi e dei corridoi sotterranei ne rimangono solo le rovine. Nel 1814, con la caduta del potere di Napoleone, ritornò il re Vittorio Emanuele I e ricominciò una nuova vita. Le tante vicende degli anni precedenti portarono lentamente a nuove aspirazioni e condizioni di vita. Anche i piccoli centri ne risentirono gli effetti e con loro il villaggio di San Michele.
Già esteriormente era mutato con la rovina del castello e della chiesa vecchia e con la costruzione del nuovo ponte e delle nuove strade così anche la vita interiore del villaggio si venne rinnovando.
Una delle principali innovazioni furono le opere di beneficienza, già presenti in passato ma lasciate interamente a se stesse.
Per quanto riguarda il soccorso ai poveri nacque la Congregazione di Carità che fece suoi i fini propri della Confraternita e della Compagnia del Suffragio che continuarono a vivere solo come società religiose.
Sparirono del tutto invece altre istituzioni come il Monte di Pietà e il quaresimale.
La Congregazione di Carità sostituì tutte le altre opere benefiche e se all’inizio del 1800 appare modesta, raggiunse una ricchezza considerevole nel 1820.
Il teologo Fontana lasciò erede la Nipote a condizione che qualora non avesse figli, alla sua morte tutto pervenisse alla Congregazione. Così avvenne nel 1820 e i redditi della Congregazione salirono da circa duecento a seimila lire annue. Questi redditi, adempiuti alcuni legati per volontà dei testatori, venivano distribuiti ai bisognosi del paese dapprima in viveri e vestiti e poi solo in denari mensili o straordinari in caso di malattie o infortuni.
Oltre alla famiglia Fontana c’erano allora in paese altre famiglie autorevoli: quelle dei Conti Quarelli, dei Mongherda o Mongardi, dei Facio, dei Ruffa, dei Michelotti.
Anche da molte di queste famiglie giunsero aiuti per le opere buone del nostro villaggio.
Meritano ora un cenno le chiese del luogo, quelle dedicate a San Michele, a San Paolo e a San Lorenzo. Quest’ultima con la sua borgata di Tetti Casotto continuò a far parte della parrocchia centrale di Torre; quella di San Paolo da rettoria si convertì in parrocchia per volontà della popolazione e per l’opera intelligente e attiva di Don Alessio Basso di Peveragno. Così una nuova parrocchia venne ad unirsi alla vicaria di San Michele che intanto progrediva. Fu abbellita dell’organo, degli addobbi di seta cremisi damascata, dei dipinti, del pulpito e del pavimento.
Presso l’autorità e la maggior parte della popolazione, non venne comunque meno il ricordo di quei valorosi che avevano protetto il nostro borgo da un totale sterminio nella discesa di Bonaparte in Italia.
Fin dall’anno 1816 il Consiglio Comunale si propose di ricercare come si era svolta la vittoria del ponte di San Michele e di celebrarne la memoria. Questo proposito non fu compiuto allora ma non fu abbandonato e più tardi il sindaco Dott. Giuseppe Corte, che coltivava la poesia e gli studi storici, pubblicò un opuscolo su questa battaglia valendosi anche dei racconti di chi ne fu testimone. Verso il 1847 fece costruire una chiesetta sul luogo stesso dove sorgeva la vecchia chiesa e si apriva l’antico cimitero.
Appare evidente che le condizioni del paese erano buone e la popolazione, scesa a milleduecento anime verso il 1800, era già risalita a millecinquecentoottanta nel 1814 fino a contarne milleottocentoottanta nel 1848 e oltre duemila nel 1881.
L’ amministrazione comunale, caduto il Bonaparte, ritornò come era prima della rivoluzione francese e venne poi a comporsi di un consiglio di quindici persone compreso il sindaco fino all’ultima trasformazione del regime fascista con l’avvento del podestà, ben diverso dall’antico podestà dei nostri statuti.
La posizione del paese sulla via nazionale e al termine di molte vallate richiese una rete di strade che facilitassero la comunicazione e così si fece.
Si costruirono strade verso Torre, verso val Mongia, verso Niella; verso San Paolo e un’altra verso la ferrovia; si sostenne economicamente la tramvia che univa a Mondovì; si provvide al buon mantenimento delle vie nell’ abitato; si abbellirono i portici; si spianò un largo piazzale dove si abbassava il fossato del Boglietto e si costruì un nuovo camposanto.
Si aprirono poi nuovi mercati e si pensò all’illuminazione del capoluogo prima con lanterne a petrolio poi con la luce elettrica.


Amedeo Michelotti chiude così il suo viaggio nel passato:

“Ma qui possono trovare il loro termine queste notizie storiche, dedicate al mio diletto paese e alla memoria di mio padre che ne fu per molti anni modesto, retto, amato sindaco e amministratore. Le quali notizie si vennero compendiando da numerose e talvolta minutissime carte sparse qua e la negli archivi, lavorando, si stava per dire, all’usanza delle api, senonchè il loro lavoro dà frutto di soave dolcezza e quest’altro recherà forse asprezza disgustosa. Si danno tuttavia sostanze che sentono di una tale loro amarezza che si risolve di poi in un sapore non del tutto sgradito”


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