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1700
1700
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Nel 1700 le condizioni della comunità di San Michele, come quella dei paesi vicini, si presentano assai migliorate. Le grandi vicende politiche non si ripercuotono così dolorosamente come prima sul piccolo villaggio.
Se ne risentirono gli effetti solo all’inizio del secolo e, più fortemente, alla fine e in tutti e due i casi per le guerre contro la Francia.
La famiglia primogenita dei Marchesi di Ceva era finita nel 1697 e l’altra famiglia dei marchesi, con a capo il signor Alfonso, aveva solo una piccola parte della giurisdizione, condivisa con altri Signori.
La giurisdizione del villaggio era distribuita in diciotto punti. Nel causato o bilancio del 1715, per darne un’idea, il conte Filippone ne possedeva nove, la metà della giurisdizione.
Quattro punti ne conservavano gli eredi del marchese Alfonso , quattro spettavano al conte Vacca e uno al conte Mocchia.
Perduravano vari contributi ai Signori ai quali la Comunità era obbligata per antiche consuetudini e convenzioni.
I possedimenti dei signori si distinguevano in terre feudali, retro feudali e allodiali, cioè private. Le terre feudali non erano soggette a imposizioni, quelle allodiali si. I possedimenti retro feudali erano di diretto dominio dei Signori ma erano di proprietà di particolari persone che li coltivavano e ne godevano liberamente i frutti pagando in prodotti un piccolo diritto al Marchese.
Questi diritti, o canoni di enfiteusi non erano molto gravosi ma i coloni li pretendevano estinti per averne pagato il capitale mentre i Signori volevano mantenerli.
La stessa cosa avveniva per le decime. Ovviamente si ricominciò a bisticciare anche se in modo meno bellicoso.
Anche per i beni privati dei Signori i benevoli sudditi davano volentieri dei fastidi. Si ricorda il caso dei pascoli delle Rocchette, una alta collina rocciosa che si estende verso Torre e scende rapidissima sull’affluenza del Casotto con il Corsaglia.
Queste Rocchette erano registrate tra i possedimenti allodiali dei Signori che ne pagavano tutti gli oneri.
Gli abitanti di San Michele e di Torre, comunque, vi conducevano allegramente al pascolo le loro greggi, tagliavano e portavano via le piante, aprivano fornaci di calce e ne prendevano le pietre per alimentarle.
I Signori insorsero contro tali abusi e ne ebbero, almeno in qualche modo, ragione.
Si questionò anche per altri motivi, per esempio i cosiddetti bandi campestri, ordini che regolavano i tempi della vendemmia, i passaggi per i poderi, le elezioni dei campari, i pascoli. I Signori cercavano di arrogarsi alcuni diritti e di negarne altri alla Comunità che ne godeva da tempi immemorabili, come quelli sulla pesca e sulla caccia.
Anche per i censi ci fu motivo di discutere anche se in effetti erano molto diminuiti sia nel numero che nel valore. La contesa maggiore si ebbe con la famiglia Corbelleri, di cui si è già parlato, e durò vivace per molti anni.
Mentre così si viveva in questo nostro piccolo villaggio, il Piemonte con il suo Duca Vittorio Amedeo II prendeva parte attiva alla guerra tra Francia a Austria.
Nel 1704 si alleò con gli Austriaci e il Piemonte, e con lui il nostro villaggio, dovette sopportare gravi danni dalle milizie francesi. A questi danni si sommarono la mancanza di raccolti per i capricci delle stagioni: brine, venti, tempeste e siccità tormentarono il nostro paese nell’anno 1704 e nel successivo.
Nel 1706, quando Torino era già assediata, i Francesi presero Mondovì e circondarono il forte di Ceva. Anche il castello di San Michele fu occupato e ricominciarono per il paese i disagi dovuti all’ andirivieni di milizie che agivano minacciosi e senza alcuna moderazione.
Nelle spese per le milizie l’arciprete Quarelli venne generosamente in aiuto degli amministratori della comunità.
Finalmente, dopo la battaglia di Torino del sette settembre, la guerra si allontanò ma seguirono anni difficili che ricordavano purtroppo le sofferenze del 1600. Per la siccità seccarono molte viti, vi furono scarsi raccolti di grano, vino, legumi e castagne. Vi furono grandine e inondazioni dei torrenti Corsaglia e Casotto negli anni 1708 e 1710.
Di nuovo si temeva la fuga della gente dal paese e si ostacolò l’esodo diminuendo le taglie, in particolare di quella sul grano, il cui raccolto era stato scarsissimo.
In quegli anni di pace, o guerra lontana, non fu difficile rimediare a questi guai e così trascorse per San Michele il primo decennio del 1700. Dopo i trattati di pace del 1713 e 1714, per i quali il Duca Vittorio Amedeo II acquistò il titolo di re, seguirono tempi di riordinamento e di prosperità per il Piemonte, anche nei suoi più piccoli centri e anche nel borgo di San Michele.
Nel frattempo veniva sempre più indebolendosi l’autorità delle famiglie feudali. e così pure la dipendenza verso il Marchese che era ancora così viva all’inizio del secolo precedente.
Rimanevano il marchese Michele Giuseppe di Ceva, il conte Marco Andrea Filippone, il marchese Massimino, i conti Vacca e i conti Isasca la cui autorità mirava ormai solo più ad esigere le decime e altri minuscoli redditi della loro giurisdizione feudale.
Per quanto ridotti a piccola cosa questi diritti continuavano in ogni occasione ad essere osteggiati o negati dagli uomini di San Michele che da secoli parevano portare nel sangue questa loro inclinazione.
Anche il pagamento delle decime continuava a essere problematico per cui se ne interessava il giudice, esattamente come in passato. Di nuovo si obbligarono i sindaci e i consiglieri a rispondere direttamente delle spese in caso di ritardo.
Si riaccese la questione dei bandi campestri che i signori feudali pretesero di formulare e pubblicare essi stessi, ovviamente a loro vantaggio.
La comunità, in virtù dei suoi statuti, godeva da tempo antichissimo del diritto di regolare i bandi campestri e si oppose con vivacità e con buon esito alla pretesa dei signori feudali.
Con eguale fermezza si opposero alla pretesa dei signori di nominare essi stessi il campario comunale mentre avevano facoltà soltanto di nominare un campario per i loro poderi. La nomina del campario comunale spettava da tempo alla comunità che di nuovo fece valere questo diritto.
Nello stesso modo negarono ai signori il diritto di proibire la caccia e la pesca perché era un loro diritto da un tempo antichissimo.
Continuava così, esattamente come in passato, il contrasto di questo piccolo consorzio di signori e di questa non numerosa società di cocciuti popolani.
Nel 1726 un uomo di legge suggeriva ai marchesi di venire a più miti consigli e di cercare una pacifica intesa con la Comunità.
Mandava questo invito da Torino l’avvocato Quarelli, di una famiglia che si era venuta elevando con altre ma con miglior fortuna. Già nel catasto del 1559 era iscritta per alcune terre al Buon Gesù.
L’avvocato Quarelli fu probabilmente fratello dell’arciprete di San Michele. Gerolamo Quarelli, succeduto al Corbelleri nel 1704.
Don Gerolamo Quarelli con il fratello Giovanni Battista si prodigarono assieme per il decoro della nostra chiesa. Fecero costruire a loro spese l’altare maggiore di marmo con una grande croce e un alto tabernacolo di legno scolpito.
Furono opera loro anche alcuni stucchi, veramente pregevoli, agli altari della Concezione, del Crocefisso, di San Giuseppe e di Santa Giustina.
Anche la statua dell’immacolata Concezione, di legno dorato, fu un dono dell’arciprete Quarelli come le pitture con cui venne decorata la chiesa.
Di nuovo l’arciprete Quarelli fece costruire la chiesetta di Sant’ Antonio, attigua all’antica detta di San Magno e quella di San Giacomo sulla Bicocca.
La prosperità del nostro paese si manifestò anche nel restauro dei pubblici edifici e nella costruzione di altri nuovi.
Per queste opere fu di molto aiuto il genio dell’architetto monregalese Francesco Gallo amico dell’ allora segretario Fontana. Sia la facciata della chiesa che la casa comunale risentono della sua arte.
Anche la struttura finanziaria si reggeva bene: appariva sempre meglio sistemata la compilazione dei bilanci e dei conti comunali, regolati e approvati dalle autorità superiori.
Le spese annue si mantenevano regolari, senza grandi variazioni tra l’una e l’altra annata.
Le spese più rilevanti risultano quelle ducali e militari; vengono poi gli stipendi del segretario, del medico, del maestro di scuola e dei cappellani; seguono ancora le infeudazioni, le decime e gli interessi dei censi. Per questi ultimi tributi e per il catasto si ebbe qualche discussione che però non causò i rancori di un tempo e fu presto appianata.
I bilanci comunali documentano che la ricchezza del paese stava aumentando, anche se non di molto. Questa ricchezza proveniva dai prodotti della terra, dai prati che permettevano di mantenere un buon numero di bestiame e dai commerci, favoriti dalla posizione del nostro villaggio.
Si ebbe così cura delle vie, della sanità pubblica e dell’irrigazione che veniva proporzionalmente distribuita e regolamentata dai massari mentre i campari vigilavano che nessuno abusasse del suo diritto. Tutti gli utenti di queste acque costituivano quasi una società, senza forma e valore legale, che praticamente si confondeva con l’intera comunità.
La popolazione sorpassava il migliaio: nella visita pastorale del 1737 si contarono millequattrocentosessantacinque abitanti, quindici in più nel 1743 mentre nel 1750 gli abitanti salirono a milleottocento.
Si continuò ad aver cura dell’istruzione dei giovani: il Corbelleri e il Quarelli, prima che arcipreti, sono ricordati come maestri di scuola.
Si legge anche del sacerdote Gerolamo Nasi che ebbe cura dell’istruzione e amore per le belle arti.
Già nel 1500 veniva citato il portico di Teodoro Nasi e sulla parete esterna della casa di questa famiglia rimane ancora parte di un dipinto di quel secolo raffigurante la Vergine con il bambino accanto a San Giovanni Battista.
Nella seconda metà del 1700 la vita del villaggio continuò con serenità. Dati i tempi di pace gli animi si mantennero quieti anche se resisteva un certo spirito battagliero, non più così vivace come prima.
In questi anni si vennero trasformando gli ordinamenti della comunità, specialmente per quanto riguarda il Consiglio che da secoli era composto da ventiquattro consiglieri.
Nel 1775 il Re fece introdurre, nelle nomine amministrative, delle leggi uniformi per tutto lo stato. San Michele, come tutti i paesi simili, ebbe allora soltanto più cinque consiglieri. Ogni anno il consiglio veniva rinnovato di un componente e come sindaco si avvicendava anno per anno il consigliere più anziano per ordine di elezione. Accanto al Consiglio ci fu sempre il podestà, o giudice, nominato dai Marchesi.
Questa nuova formazione del Consiglio portò un mutamento anche nelle regole di irrigazione per i due più importanti canali, quello dei Carneroli e della Piana. Poco prima di questo cambiamento si era litigato con la gente di Torre per l’irrigazione di alcuni prati sotto le Rocchette. Forse per questo o per altri litigi si ricorse al Re Vittorio Amedeo per ottenere regole diverse e più giuste. Si ottennero le Regie Patenti che autorizzavano i proprietari e gli utenti dei due canali a riunirsi per eleggere un’amministrazione e per compilare un regolamento stabile.
L’amministrazione si radunava, con il permesso del podestà e da lui presieduta, con lo scopo di verificare quanto occorresse per gestire ogni cosa con esattezza, di sostituire gli amministratori di anno in anno, di nominare i suoi agenti e procuratori, il tesoriere e i due campari.
Questi ultimi, in particolare, avevano il compito non soltanto di assistere i proprietari nell’irrigazione ma di provvedere essi stessi ad effettuarla.
Il nuovo regolamento era composto di quattro statuti:
il primo ordinava che nessuno potesse irrigare la proprietà direttamente e che tutto venisse fatto dai due campari.
Il Secondo stabiliva le regole per l’irrigazione che doveva iniziare dal prato più vicino al canale e continuare via via fino all’ultimo. Si doveva procedere nello stesso modo anche nelle irrigazioni successive.
Il terzo statuto trattava degli accordi relativi ai campari, del loro compenso e del relativo pagamento.
L’ ultimo stabiliva le pene contro chi usurpasse le acque dei canali in qualsiasi modo. Gli abitanti di Torre che possedevano prati e campi sul territorio di San Michele non approvarono le nuove regole e innescarono vivaci e turbolente proteste.
Si opponevano specialmente al secondo statuto che in pratica li privava del diritto di prelevare l’acqua dal canale in giorni ed ore determinate.
Si discusse per un certo tempo dinnanzi ai tribunali dopodiché lo statuto venne in sostanza approvato ma si lasciò ai proprietari di Torre la distribuzione delle acque come fatto in precedenza.
Si pensò in quegli anni a governare bene il paese e si pensò anche ad abbellirlo.
Nel centro del villaggio, lungo la via principale, si allineavano i portici, tanto alti sul livello della via che potevano ospitare alcune bottegucce, già ricordate fin dal 1500.
Verso la fine del 1700 l’arciprete Odasso ne fece aggiustare due, una per il fabbro ferraio e un’altra per i barbieri-chirurghi: si sa che ai barbieri veniva affidata anche l’arte del salassare, molto in voga già a quei tempi.
Già in precedenza erano stati fatti alcuni lavori per abbassare il piano dei portici e renderli più alti e spaziosi come sono ancora oggi.
Si giungeva alla Chiesa Parrocchiale tramite due vicoli che attraversavano gli archi dei portici partendo dalla via sottostante.
Uno di questi vicoli, superando il portico di Gerolamo Nasi, conduceva proprio di fronte alla chiesa mentre l’altro saliva più in su attraverso il portico del medico Guglielmo Daziano, quest’ultimo vicolo porta ora il nome del Dott. Perotti.
Le processioni percorrevano entrambi i vicoli e il trasporto della statua della Madonna del Rosario creava ogni volta qualche problema perché il baldacchino scendendo per il vicolo Perotti girava a stento sotto il portico. Quando poi risaliva per l’altro vicolo i portatori dovevano abbassare il baldacchino fino a terra e togliere anche la crocetta che lo sormontava per poter passare oltre.
Per facilitare il transito delle processioni, nel 1764 la Comunità decise, d’accordo con i proprietari, di abbassare il suolo di quelle salite. Nello stesso periodo venne aperto tra questi due vicoli un terzo passaggio a scalinata.
La facciata della chiesa era in tal modo visibile sia dalla strada che dalla piazza e con l’andar del tempo si armonizzo con questi mutamenti anche tutto il resto dei portici.
All’arciprete Quarelli era succeduto, nel 1744, don Fiorenzo Maja di Niella di indole del tutto diversa.
Il primo fu generoso nei confronti della chiesa mentre il secondo non era disposto, come si espresse la Comunità, neppure a fare la minima spesa per la sua sposa, la Chiesa.
Ci furono dei disaccordi con questo sacerdote che furono prima esposti al vescovo di Asti e successivamente arbitrati dal canonico Fulcheri, vicario generale di Mondovì.
In questo periodo infatti la nostra chiesa parrocchiale venne aggregata a quella di Mondovì assieme a quelle di Pamparato, Torre, Niella, Cigliè e Roccacigliè con una solenne funzione celebrata a San Michele.
Come nella vita amministrativa così nella vita religiosa, anche il comune di San Michele si avvicinava sempre più a Mondovì.
All’ arciprete Maja, nel 1779, succedette l’arciprete Odasso, di Peveragno. Attivissimo, arguto e propenso alla critica, iniziò subito a biasimare praticamente tutto: l’aspetto della casa canonica, lo stato in cui venivano tenute le vigne, i campi, i prati, i boschi.
La casa canonica in particolare venne da lui descritta così: “Esteriormente pare un vescovado ma in realtà è ben diversa: ha le stanze a solai i quali si muovono ad ogni muovere di passo; vi si gela d’inverno, vi si soffoca di caldo nell’estate. La casa da sulla via e si gode lo spettacolo del transito pubblico; ma quel che rallegra l’occhio di chi vigila, molesta chi vuol prendere riposo”.
Nei poderi parrocchiali introdusse alcune migliorie “con buon esempio e stimolo per i suoi parrocchiani” e tempestò l’autorità comunale di richieste per riparazioni alla canonica.
Voleva in effetti solo opere buone ma forse ne voleva troppe e tutte assieme. Non soddisfatto, dopo circa dieci anni, rinunciò alla parrocchia conservandone però il ricordo nella sua lunga vita tant’ è che morendo destinò un lascito per l’altare di Santa Giustina.
La sua rinunzia alla parrocchia non fece un buon effetto fuori dal paese e il successore designato non ne prese mai possesso. Più avanti venne parroco da noi Don Giovanni Perano, anche lui di Peveragno, persona generosa e amante del pubblico bene. Cominciò la sua arcipretura nell’anno della rivoluzione Francese.
Pare che lo spirito che animò la rivoluzione, così ribelle agli ordini antichi e alle antiche leggi feudali, cominciasse a insinuarsi anche nel nostro piccolo villaggio se si vuole giudicare dal contegno della comunità verso i Marchesi.
Agli ultimi discendenti dei Signori di Ceva-San Michele restava ormai ben poco della passata ricchezza e autorità.
Il Marchese Michele Giuseppe, nel 1704, aveva ceduto alcuni punti alla zia paterna sposata al Conte Vacca; vent’anni dopo ne cedette altri alla sorella, sposa del marchese Massimino e quando morì lasciò ben poco ai suoi figli: un punto e mezzo su diciotto che ne possedeva. A costoro poco restava anche del castello che nel 1773, andò quasi tutto al marchese Massimino Castiglione.
Sempre si era litigato per ragioni importanti tra i marchesi e la comunità ma sul finire del 1700, quando alla famiglia dei marchesi poco rimaneva dei privilegi feudali, le contestazioni avvenivano anche per futili questioni non sempre giustificate.
Nel 1782 questa famiglia decaduta si vede addirittura ammessa al benefizio dei poveri.
Galleria di immagini
Vittorio Amedeo II di Savoia
Cappella di San Giacomo sulla Bicocca
Dipinto sulla parete esterna dei portici
I portici
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