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Fine 1500 - inizio 1600
Fine 1500 - inizio 1600
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Descrizione
Durante il pacifico regno del duca Emanuele Filiberto, 1559-1580 si riordinò lo stato e se ne migliorarono le condizioni. Ancora in pace passarono i primi anni del suo successore, il duca Carlo Emanuele I sposo della figlia del re di Spagna.
Poco tempo dopo ricominciarono le guerre per la conquista del marchesato di Saluzzo e con la guerra tornarono le molestie che sempre l’accompagnano
Nel 1590 si riaccesero le liti per le taglie perché di nuovo i marchesi rifiutavano di pagare accampando le solite ragioni.
Alcuni, come il signor Febo, agirono con arroganza arrivando anche a minacciare di percosse i messi giudiziali.
Altri, come il signor Giovanni Antonio Giorgio con la moglie Ottavia, furono meno aggressivi ma più ambigui e senz’altro più efficaci nel ritardare le cose.
Pur dichiarandosi d’accordo a pagare la loro parte di tributi chiesero prima di riesaminare i bilanci o le delibere comunali e poi di rivedere le distinzioni tra le varie spese.
La cosa andava per le lunghe e la comunità dovette ricorrere una volta ancora all’autorità ducale e ai pubblici incanti sia per il signor Febo che per il signor Giovanni Antonio il quale in segno di protesta si allontanò dal paese.
La contesa si prolungò fino all’inizio del 1600 quando ne seguì un’altra relativa alla registrazione delle terre allodiali (private) dei signori feudali.
Quest’ultima lite, lunga e dispendiosa, terminò il 16 settembre 1617 quando la Camera ducale confermò la sentenza precedente favorevole alla Comunità.
A parte questi litigi che si svolgevano in forma legale, i rapporti tra i signori e la gente di San Michele si svolgevano generalmente in buona armonia e persino il signor Febo, nonostante conducesse le liti con maggior asprezza, nella vita comune trattava amichevolmente con la gente di San Michele. In alcune occasioni arrivò addirittura ad aiutare economicamente la comunità.
Nonostante questi rapporti amichevoli e nonostante la sentenza del 1617, il signor Febo trovò comunque il modo di prolungare la lite sulle taglie: l’ occasione la fornì la nascita di una bambina, la dodicesima dei suoi figli. Una sentenza del 1618 infatti, concedeva l’esenzione dalla maggior parte dei tributi a coloro che raggiungevano il numero di dodici figli. Il signor Febo non perse l’occasione ma la sentenza che ne derivò fu nuovamente favorevole alla Comunità e rincarò la dose costringendolo a registrare come soggette ai tributi cinque altre sue terre. Il signor Febo non volle rassegnarsi ma una lettera del Duca del 23 maggio 1620 gli impose perpetuo silenzio.
Anche i Signori feudali erano sottomessi all’autorità suprema dei Duchi di Savoia e obbedivano alle leggi generali dello stato. Ad osservare la legge erano a volte chiamati dai loro stessi sudditi sui quali avevano avuto un tempo un dominio assoluto.
Sull’osservanza delle leggi vigilavano per San Michele il prefetto della provincia di Mondovì o, più sovente, il prefetto o governatore della provincia e del marchesato di Ceva. Tribunale supremo fu il Senato di Torino mentre i signori del luogo godevano ancora del privilegio della prima e della seconda competenza delle cause.
Un prefetto di Ceva tentò, senza successo, di privarli di tale diritto ma il solo tentativo dimostra che l’autorità feudale dei marchesi si stava sempre più indebolendo e altre autorità si sostituivano alla loro.
In quegli anni, l’incarico di sindaco presentava non poche difficoltà sia per la gestione dei litigi interni, sia per altre questioni con i paesi confinanti.
Toccava al sindaco tenere la contabilità comunale, esigere i crediti, fare le spese opportune e motivarle davanti alla comunità. Le entrate provenivano dai redditi delle terre comunali, dai redditi della gabella, ossia il dazio sul vino, e dalle taglie sui terreni. Il Podestà trasmetteva l’ordine di riscossione e il sindaco provvedeva tramite i suoi esattori.
L’esattore dove a versare nella cassa comunale tutto quanto stabilito dalle taglie ma non sempre riusciva ad incassarle.
I motivi erano ancora gli stessi: le opposizioni dei Signori e le difficoltà create dai paesi confinanti che, sull’esempio dei marchesi, contestavano alcune delle spese. Cominciarono gli abitanti di Torre seguiti da quelli di Monasterolo, Niella e Lesegno e non mancarono pretesti per altri comuni confinanti. Le contestazioni erano originate soprattutto da errori nel registro dei terreni.
Il Sindaco, dopo un anno di amministrazione in cui si destreggiava come poteva tra tutte queste difficoltà, presentava il resoconto delle spese alla comunità. Queste spese venivano valutate dal nuovo consiglio comunale eletto e, come risulta da alcuni documenti, non tutte venivano ammesse e giustificate.
Il vecchio sindaco poteva così trovarsi debitore verso la comunità per quanto non approvato.
Questo non era l’unico grattacapo della carica sindacale: il sindaco del 1616 tra le altre spese, mise in conto i viaggi a Ceva e a Genova dove era rimasto parecchi giorni in arresto per i debiti della comunità.
Non stupisce che l’incarico di sindaco non sempre venisse accettato volentieri dalle persone candidate.
Per meglio regolare le spese, si iniziò a compilare una specie di bilancio preventivo, detto “causato”, delle spese a cui era soggetta la comunità. Queste spese comprendevano tasse imposte dal governo ducale, onorari e stipendi del sindaco, del podestà, del medico, del maestro di scuola, del segretario.
Il causato veniva pubblicato all’inizio dell’anno in San Michele e nei paesi vicini che possedevano terre nel nostro comune: tutti potevano così averne conoscenza e fare le opportune considerazioni.
La comunità, fin dall’inizio del 1600, fu assillata da gravi ristrettezze: non bastavano le entrate ordinarie e si dovette ricorrere ai censi ovvero prestiti garantiti dai beni della comunità.
I tributi e le tasse, a quei tempi, venivano distribuite su tutte le terre del marchesato di Ceva a seconda della maggiore o minore bontà delle terre . Per il moltiplicarsi delle imposizioni o per mancanza di regole fisse questa distribuzione non era calcolata sempre con esattezza e poteva così succedere che una provincia o una comunità pagasse più o meno del dovuto.
Per la perequazione, o uguaglianza, si radunavano in Ceva i sindaci delle varie terre che a quei tempi risultano essere ventisei (o ventisette secondo alcuni testi).
Questa adunanza veniva chiamata congregazione ed era valida se il numero dei sindaci, o dei delegati, presenti raggiungeva i due terzi del numero totale, esattamente come avveniva per le adunanze del Consiglio comunale e di quelle dei capi di casa.
Nella congregazione del 1615 San Michele risultò debitrice di più di diecimila fiorini verso la comunità di Garessio. Più tardi, nel 1621, nel 1624 e nel 1626 risultò di nuovo debitrice assieme alla comunità di Niella e di altre comunità minori.
Si era negli ultimi anni assai turbati del regno di Carlo Emanuele I.
Il disagio della comunità aumentava di giorno in giorno ed erano frequenti le minacce dei creditori per indurli a pagare. Ben presto alle minacce seguirono i fatti: arrivarono prepotenti commissari che oltre al sequestro di un buon numero di animali arrivarono in un’ occasione ad arrestare il sindaco.
A queste difficoltà si aggiungevano i mancati raccolti, le grandinate, l’alloggiamento delle soldatesche di passaggio e le loro prepotenze.
La comunità, assieme a quella di Niella, si dichiarava estremamente povera e chiese aiuto asserendo che per la fame la maggior parte delle persone aveva abbandonato le proprie case.
E’ possibile che avessero un poco esagerato per produrre un effetto maggiore ma di certo la situazione era molto difficile.
Nonostante le difficoltà del momento mantennero uno spirito combattivo, e continuarono a curare i propri interessi con una certa risolutezza. Si ricordano due dei casi più importanti: quello per il ponte sul Corsaglia e quello per la chiesa.
Il ponte era costruito di legno e pietre, basso sull’acqua e sorretto da palafitte o cavalletti piantati nel greto del torrente. Alle due sponde erano collocati due gabbioni ripieni di pietre. Su questi gabbioni e cavalletti venivano fissati dei legni per il lungo e delle assicelle per traverso. Il tutto veniva poi ricoperto di zolle per riempirne le giunture e per rendere il tutto più solido. Due erano I bracci del fiume e due erano le gettate del ponte.
Il ponte, costruito sulla strada reale, era molto importante sia per gli abitanti stessi di San Michele che per i viaggiatori e commercianti: vi transitava praticamente tutto il traffico di merci tra Piemonte e Liguria.
Per il Comune costituiva una ricchezza ma anche un costo perché era facilmente soggetto a guasti e non di rado veniva trascinato via dalle piene del fiume.
Così avvenne nel novembre del 1620 per una grande inondazione: Corsaglia straripò, distrusse il ponte e l’acqua si creò un nuovo letto.
In precedenza, quando il fiume straripava e distruggeva il ponte, questo veniva ricostruito nello stesso punto di prima mentre le acque venivano ricondotte sul corso originario.
Nel 1620 invece venne deciso di ricostruire il ponte sul nuovo letto scavato dal torrente ma per la scarsa stabilità del terreno l’acqua si portò subito via il ponte.
Ci riprovarono ma già nella primavera successiva il nuovo ponte era gravemente danneggiato.
Decisero allora di tornare all’antico sito ma a sbarrargli la via incontrarono il Signor Giacomo Della Torre. Costui possedeva un prato tra il fiume e l’alta riva sulla quale sorgono le case del villaggio e dichiarò di sua proprietà sia il letto abbandonato del torrente sia lo spazio ghiaioso che confinava con il suo terreno. Si oppose al progetto con il pretesto che non era conveniente riportare il fiume all’antico letto.
Si bisticciò per qualche tempo con notevole accanimento e la questione finì nelle mani del podestà di San Michele.
Quando la comunità, ottenuto il permesso del podestà, iniziò i lavori di ricostruzione, intervenne nuovamente il signor Della Torre con l’ ordine di sospensione emesso dal prefetto di Mondovì.
Anziché fermarli, l’ordine di sospensione ebbe l’effetto di spronarli ancora di più.
Anziché fermarsi, lavorarono tutti con caparbietà, uomini, donne, giovani e vecchi, anche nel giorno festivo. Contro il delegato prefettizio volarono anche parole ingiuriose ma ben presto la comunità, risoluta come sempre, ottenne una sentenza favorevole e il ponte fu ricostruito come deciso dal popolo di San Michele.
In un clima più disteso si decise invece, nel 1628, la costruzione di una nuova chiesa parrocchiale.
La parrocchia veniva tutt’ora governata da un vice-curato dipendente dall’arciprete di Ceva ma il popolo desiderava che la chiesa ritornasse all’antica indipendenza. Si lamentarono, mandarono suppliche ma invano. Anziché scoraggiarli, questo rifiuto rafforzò la cocciuta gente di San Michele. Così decisero, incoraggiati anche dalle prediche di padre Ilario, torinese, cappuccino e famoso per la sua cultura e rettitudine di edificare la nuova chiesa più adatta ai bisogni del paese.
Fu scelto un luogo al centro del borgo sulla via che sale al castello, a eguale distanza dalle due ali del villaggio, Villa e Codovilla, dove abitava la maggior parte delle persone.
Alle spese, oltre ad alcuni legati già ricevuti, vennero destinate anche le multe imposte ai consiglieri che non intervenivano alle sedute, a chi vendemmiava prima del tempo fissato e altre simili.
Si iniziarono subito i lavori: la pietra murata sopra la parete esterna del coro porta incisa la data del 1628.
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Duca Carlo Emanuele I
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