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Continuavano intanto le grandi guerre tra Francia e Spagna per il predominio sull’ Italia e ne continuavano i tristi effetti fortemente sentiti nel marchesato di Ceva che con Asti apparteneva tuttora alla Francia.
Gravi discordie affliggevano le nostre città e San Michele stesso fu teatro di un violento assalto di cui non ci sono particolari notizie ma si sa per certo che col perdurare delle guerre le condizioni del paese si stavano aggravando.
Nel 1513 Luigi XII, re di Francia fu sconfitto a Novara. Due anni dopo morì e gli succedette il giovane e battagliero Francesco I che subito, disceso in Italia vinse gli spagnoli e riconquistò il Milanese. Gli fu consigliere Giovanni Giacomo Trivulzio, lasciato poi a governare le frontiere d’Italia da quelle parti.
Appunto in quegli anni il villaggio di San Michele fu anch’esso scosso da fierissime discordie.
Vinti o vittoriosi che fossero i Francesi opprimevano il paese con spese di guerra; cresceva di conseguenza il malcontento e infierivano le discordie.
In mezzo a tali turbolenze si commisero gravi delitti e per i tristi pregiudizi dei tempi, alcune donne furono imprigionate come streghe e una, Caterina Berruta, fu bruciata viva. Molti banditi approfittando della confusione che regnava, molestavano le strade di tutto il Piemonte.
L’ordine dell’amministrazione venne a volte turbato come, nel 1515, per l’elezione del Podestà, nome che surrogava quello del Rettore.
La sua nomina apparteneva di diritto ai marchesi, signori del luogo ma in quell’occasione venne fatta dallo stesso Gian Giacomo Trivulzio, governatore del re di Francia, che elesse a questo incarico Andrea De Silva.
I tempi turbolenti aggravarono le discordie tra i Marchesi e il Rettore della Chiesa soprattutto per quanto riguardava la raccolta e la presentazione delle decime.
Il Rettore infatti percepiva senza fatica la sesta parte, delle novanta complessive, direttamente dagli agenti dei Marchesi e non doveva preoccupare della riscossione stessa.
Il Signor Carlo, Signore a quei tempi, affermò giustamente che gli affari non ben definiti generano discordie e propose una nuova procedura.
Con il nuovo sistema sia il Rettore che i Marchesi dovevano avere ciascuno il proprio collettore delle decime e ogni collettore poteva esigerle separatamente e così si accordarono pacificamente nel 1518.
La Comunità, nonostante i disordini dovuti alle guerre, continuava a governarsi con regolarità e secondo gli antichi statuti.
Ecco come veniva amministrata: il marchese eleggeva il podestà, giudice supremo; accanto a lui il sindaco e i consiglieri, eletti dalla comunità, amministravano liberamente il comune ed erano per lo più attenti custodi dei diritti del luogo.
Come vincolo di unione tra l’autorità del Marchese e quella della comunità si poteva considerare lo scriba, o notaio, eletto dal consiglio e presentato al podestà per l’approvazione.
Queste elezioni avvenivano nel mese di gennaio di ogni anno e sia il podestà che il notaio prestavano giuramento senza che venisse redatto alcun documento.
Nello stesso modo, alla buona, si amministrava la giustizia: nella bottega, nella casa dello scriba, sotto il suo portico o sotto quello di una persona privata. Chi si trovava a passare di là poteva fermarsi ed assistere allo svolgersi della causa. Tra i notai, segretari della comunità, si legge il nome di Giovanni Gastaldi di San Michele che nel 1531 fece anche costruire e dipingere la chiesetta del Buon Gesù. Le pitture sono di pregevole fattura, ricordano l’arte elegante di quei tempi e provano il buon gusto del signor Giovanni Gastaldi.
Questa chiesetta sorge quasi a metà cammino tra San Michele e Torre su un’ altura sulla parte destra della via. Nel 1529 il Marchesato di Ceva con la Contea di Asti, che appartenevano alla Casa d’ Orleans dal 1387, passarono sotto una nuova Signoria.
In quell’anno, dopo la pace di Cambrai, il re francese Francesco I, cedette questi suoi domini a Carlo V, imperatore e re di Spagna. Un anno dopo Carlo V li cedette alla duchessa di Savoia, sua cognata.
Furono anni di pace e frutto di quella pace furono sicuramente i pregevoli dipinti e la chiesetta del Buon Gesù.
Ben presto però, nel 1536, ricominciarono le guerre tra Francia e Spagna e questa volta furono combattute molto vicino a noi.
Ebbero una breve sosta dal 1538, anno della tregua di Nizza, al 1542 quando ricominciarono le ostilità e con esse i disordini anche nel nostro piccolo borgo.
Come già successo verso il 1515 nell’elezione del podestà, si verificarono anche qui altre irregolarità. Accadde infatti che alcuni podestà non avessero scriba o notaio che ricevesse gli atti del tribunale pertanto li scrivevano essi stessi. A volte il podestà stesso e non il consiglio eleggeva lo scriba, ma sempre con il consenso degli abitanti.
Più avanti, nel 1541, un podestà prese a seguire un tale uso e a fare da se in tribunale senza uno scriba o cancelliere. Della cosa si lamentava il paese e quando una sentenza venne presentata senza la firma dello scriba la comunità la fece annullare, in base allo statuto.
Queste irregolarità appaiono isolate ma più tardi, verso il 1544, ricominciate le guerre, si tralasciò del tutto di eleggere lo scriba.
Durante una controversia si tentò anche di abrogare del tutto questo privilegio della comunità cancellando fisicamente la norma che ne trattava dalla pergamena degli statuti.
Un tentativo in questo senso lo fece appunto l’allora marchese Manfredo che, per vincere una causa di sequestro, tentò brutalmente di cancellare la legge stessa che gli dava torto.
Questa prepotenza infuse coraggio per altre ingiustizie.
Il carcere per esempio, rimasto in rovina per 25 anni e poi riedificato nel 1540, fu oggetto di uno di questi soprusi.
Vi si tenevano rinchiuse le persone, sia di San Michele sia di altri paesi, in attesa di processo per reati anche gravi finché il tribunale dei Marchesi non avesse emesso un verdetto, per poi essere trasferiti nella prigione del castello.
Negli ultimi atti del processo, poi, le conclusioni venivano lette in presenza dei probi uomini del paese, come testimoni. Godeva il comune di tale autorità e gli accusati di tale garanzia.
Nel giugno e nel luglio del 1547 il podestà Facino Monasterio che già stava esercitando il suo ufficio senza lo scriba, aggiunse a questa irregolarità un’altra violenza: fece strappare la serratura dalla porta del carcere e ne tolse la spranga, rendendolo così inservibile. Gli accusati venivano quindi rinchiusi direttamente in quello del castello anche prima della sentenza definitiva.
La comunità, a questa nuova angheria, si riscosse e reclamò i suoi diritti portando la questione innanzi al Senato con una supplica al principe di Piemonte, Emanuele Filiberto.
Il Senato del Piemonte non era a quei tempi un’ assemblea di legislatori bensì un supremo tribunale di giustizia.
Fu dato subito incarico a un commissario speciale perché si informasse su quale diritto avesse la comunità sia di eleggere lo scriba sia di tenere un carcere.
Questo commissario, nonostante l’opposizione dei Marchesi e in mezzo a altri mille contrasti terminò l’inchiesta nel 1548.
La causa fu poi dibattuta innanzi al Senato e la sentenza riconfermò alla comunità il diritto di eleggere il cancelliere e di tenere un carcere proprio.
A questa lite se ne intrecciò un’altra, sempre contro i Marchesi, in merito ai tributi imposti per sostenere le spese delle lunghe guerre.
Questi tributi pesavano specialmente sui terreni della comunità mentre ne erano esenti la maggior parte delle terre dei Marchesi.
Ovviamente i gli uomini di San Michele non erano d’ accordo, soprattutto quando nel 1536 erano ricominciate le guerre e i tributi erano diventati intollerabili.
Non fu facile ottenere giustizia e nel 1547 la comunità ricorse nuovamente al principe Emanuele Filiberto e al suo Senato. Anche in questo caso la lite fu lunga ma la sentenza, nel 1550, risultò favorevole alla comunità e i marchesi furono condannati a pagare la loro parte di contributi.
Quanto accadde dopo dimostra che non fu poi così facile far osservare ai marchesi la sentenza del tribunale.
Queste due sentenze inasprirono fortemente l’animo dei marchesi verso la comunità e più degli altri se ne risentì il marchese Luca, come dimostrano i fatti che accaddero in seguito.
A Mondovì e in molte parti del Piemonte, signoreggiava in quel tempo il Re di Francia ma la Spagna non restava inoperosa e la guerra continuava, lunga e molesta.
I marchesi di Ceva, con i Signori di San Michele, propendevano per gli Spagnoli.
Essendo in lite con la comunità di San Michele pensarono costoro di metterla in cattiva luce dipingendola come fautrice dei Francesi.
A condurre tutta la trama fu il Signor Luca, amico del Conte Giorgio Costa Della Trinità, Signore di Fossano. Era costui un guerriero ardito e aggressivo che con frequenti scorrerie seminava sgomento nel nostro territorio
Architettarono assieme un piano per frenare la baldanza della comunità di San Michele e con una lettera del 10 dicembre 1550, il conte Della Trinità informava il suo amico Signor Luca di aver sentito da una spia che quei di San Michele stavano congiurando per uccidere lui e tutti i Signori di quel luogo.
Il Signor Luca, con questo intrigo, intendeva avvantaggiare il Re di Spagna e sfogare il suo astio contro i sudditi.
Si recò prima dal duca di Savoia, sorprendendone la buona fede con il racconto della presunta congiura e successivamente, con una lettera del duca, si presentò al governatore spagnolo a Milano, Il Signor Ferrante Gonzaga , valente capitano e uomo subdolo, crudele e abilissimo nel tessere intrighi.
Costui lo rimandò dal Conte Della Trinità con un suo messaggio in cui consigliava di radunare quaranta o cinquanta uomini, piombare su San Michele e mettere le mani su una decina di sospetti per dare loro il conveniente castigo.
Così fece il conte Della Trinità e il 25 gennaio, con l’ appoggio del signor Luca che gli fornì travi e scale per assaltare le mura, piombò sul villaggio.
Molti fuggirono e tre soli uomini furono catturati e rinchiusi nel castello mentre i soldati del conte Della Trinità si accamparono nel borgo.
La Comunità non si perse d’animo, non abbandonò i compagni catturati e si diede da fare per liberare il villaggio dalle soldatesche e per la nomina di un commissario che giudicasse le persone incarcerate.
Si recarono immediatamente a Vercelli, dal Duca di Savoia, chiarirono l’intrigo e ottennero ordini per la liberazione del paese.
Il 7 di febbraio erano di ritorno e il 9 già si stabiliva il commissario ducale che procedette velocemente nei suoi esami e nel suo giudizio.
Il 12 il commissario rilasciò un salvacondotto per le persone che erano fuggite durante l’ assalto; il 18 vennero consegnati degli ostaggi per la liberazione dei prigionieri; il 21 venne vietato l’uso delle armi; il 22 i prigionieri vennero rilasciati, in libera custodia nelle loro case e il 28 furono assolti e rimessi in libertà.
Apparve chiaro che la congiura non fu altro che un pretesto per assicurare il castello e il villaggio di San Michele agli Spagnoli e per dare modo al signor Luca di sfogare il suo astio contro i sudditi.
Per cercare di difendersi, entrò anch’egli nella causa querelando i suoi accusatori ma a poco gli servì perché la sentenza gli fu contraria e lo condannò anche alle spese.
Si può ben immaginare quale rancore provasse il signor Luca per questa sconfitta e tanto si infuriò che gli stessi spagnoli cominciarono a dubitare di lui.
Nuovi mali afflissero il paese perché sia per le sue escandescenze sia per qualche sospetto suscitato da quei di San Michele, ritornarono in paese le soldatesche spagnole.
Questi soldati si stabilirono con prepotenza sia nelle case private sia nel castello e la gente di San Michele provvidero al loro mantenimento perché costoro prendevano quanto gli serviva dove e come meglio credevano.
Nel frattempo i Francesi vinsero da queste parti e nel 1552 si impadronirono di alcuni luoghi tra cui Ceva e, pare proprio, anche di San Michele.
Ne fece la conquista Monsig. Bertrando Des Gordes, governatore di Mondovì per i francesi, che assalì il castello e prese prigionieri il signor Luca e suo fratello Drusiano.
Solo pagando una taglia riuscirono costoro a riscattarsi ma i danni originati da tale intrigo furono considerevoli non solo per loro ma anche per altri signori che in quel complotto non ebbero parte.
Non crediamo tuttavia che la vita del piccolo borgo si svolgesse così tristemente come questi avvenimenti lascerebbero supporre.
Esiste infatti un’ opera d’arte, piccola ma che nel divampare di tanti aspri conflitti, ispira la pace più dolce e serena.
Ai lati del colle sul quale si elevò il castello si trova una chiesetta, San Bernardino, che una donna della famiglia De Gai aveva fatto parzialmente dipingere già nel 1489.
Su una parete di questa costruzione, che viene chiamata anche di Gajino, fu dipinta nel settembre del 1552 una scena famigliare in cui appare la vergine, bionda, sorridente e vestita di un ricco e candido manto che tiene sulle ginocchia il bambino.
Il bimbo, gaio e vivace sorregge un piccolo globo in cui sono raffigurati cielo, colli e prati verdeggianti.
Solo da un mese i francesi si erano impadroniti del castello ma è’ tale la serenità e la pace che questa opera ispira che pare impossibile che sul villaggio pesasse ancora il ricordo della fosca congiura inventata dal signor Luca.
San Michele rimase sotto la dominazione francese dall’agosto del 1552 fino al 1559.
Per questi sette anni continuò l’imposizione delle taglie esattamente come era stato fatto prima sotto il duca di Savoia e poi sotto gli spagnoli, l’unica differenza fu che vennero imposte con più ordine e frequenza.
Questa taglia, talea o colletta veniva decisa dal consiglio e dalla comunità nella misura che i bisogni dello stato richiedevano.
Se ne faceva la ripartizione su ciascuna famiglia proporzionalmente al reddito delle sue terre ma per distribuire con giustizia questa taglia occorreva un registro e un estimo esatto dei terreni.
Un primo registro o catasto del nostro territorio già esisteva e se ne fa cenno nella sentenza del 1528; un altro registro fu compilato nel 1539 e nell’ anno stesso in cui il Senato aveva dato la sentenza favorevole alla Comunità nella lite per le taglie, ne fu compilato un altro.
La Comunità ed il Consiglio curavano l’esazione di ciascuna taglia e a questo fine il sindaco teneva il libro delle parcelle e dell’importo di ciascuna contribuzione.
Non tutti corrispondevano con premura, o almeno con rassegnazione, all’invito di pagare la loro parte. Facevano opposizione gli abitanti dei comuni vicini per le terre che possedevano nel territorio di San Michele affermando che dalle taglie non ricavavano alcun beneficio perché il profitto era tutto della comunità che la imponeva.
I Marchesi, da parte loro, si rifiutavano di pagare in virtù degli antichi privilegi. Dura cosa pareva loro di vedersi eguagliati ai loro sudditi e di vedersi privati di quanto credevano loro diritto. Questo era l’aspetto straordinario della questione.
La contesa, lunga e vivace, finì con la sentenza del 1550 che condannava i Signori a registrare le loro terre allodiali, cioè acquistate e non ricevute in beneficio.
Alcuni di essi si sottomisero e registrarono i loro beni privati ma quando si venne al dunque, non pagarono.
Si era imposta una taglia nel 1552, caduto il borgo in mano ai francesi; e altre se ne imposero, una nell’anno successivo e due nel 1554.
I Marchesi erano più che mal disposti a pagare e fu inutile tentare di convincerli in modo amichevole.
Forse per i danni sofferti nel passare del villaggio dalla signoria spagnola, da essi preferita, a quella francese si mostrarono addirittura ostili alla Comunità.
Abbandonavano il villaggio e si recavano ad abitare altrove per ricomparire soltanto nel tempo della raccolta dei frutti che prendevano anche a viva forza e con le armi.
I bisogni incalzavano e la comunità ricorse al tribunale supremo del re di Francia a Torino.
Il tribunale stabilì allora che le questioni potevano essere discusse ma che nel frattempo un commissario regio procedesse direttamente sul posto alla riscossione delle taglie.
Nonostante i Marchesi gli negassero ogni competenza, il commissario agì rapidamente e le loro terre furono messe all’incanto. Vennero tutte aggiudicate alla Comunità perché nessuna persona privata avrebbe osato partecipare all’incanto delle terre dei signori.
Il signor Luca visse esule dal suo castello per 5 anni, il signor Manfredo fu privato dei suoi beni e delle loro rendite mentre i paesani soffrivano per la guerra che durava da troppi anni e portava spese più grandi di quanto potessero sopportare.
In pratica, sotto quel dominio straniero vissero a disagio sia i Marchesi che i loro sudditi.
Osserviamo ora quali furono queste grandi spese, causa delle liti che turbarono così tanto l’antico ordine del borgo.
Un’ idea si può avere esaminando alcune parcelle presentate dai sindaci a partire dal 1552, quando i francesi presero il borgo, a tutto il 1554: per la maggior parte riguardano spese di guerra.
Si legge di spese per i guastatori delle case del castello, per le guardie, per le sentinelle, per chi bastionò porte e riparò fortificazioni. Non mancano spese per rifornimento di viveri a milizie di passaggio: il 29 settembre 1552 si procurò il cibo per duemila soldati; un’altra volta si ebbe cura di quattromila soldati, tra Svizzeri e Italiani e un’altra volta ancora si dovettero governare i cavalli dello stesso viceré Monsignor Brissac.
Questo viavai di milizie era frequente e il borgo provvedeva alle spese. Altre costi erano dovuti ai soldati che presidiavano il castello: si legge di spese sostenute per letti, trapunte, coperte, materassi, cuscini di piume, biancheria, candele e olio.
I soldati di passaggio, poi, non sempre se ne stavano quieti e disciplinati: avevano non poche pretese e litigavano tra di loro e con i paesani.
Furono inviati messaggeri per chiedere aiuto e sostegno da vari signori, dal governatore, da persone influenti. Questi ambasciatori ovviamente non potevano andare a mani vuote e di conseguenza c’era un gran viavai di trote di Corsaglia, robiole delle Langhe, tartufi, polli, formaggio, limoni, vino bianco e capretti.
Non furono dimenticate neppure le regole della galanteria e gli ambasciatori si recarono più volte da Madama de Gordes recandole doni perché intercedesse presso il marito, governatore di Mondovì. Questi furono polli ben spesi perché questa signora, di animo buono, ebbe a cuore sia i pubblici affari sia la sorte degli oppressi e non negò il suo aiuto.
L’imposizione delle taglie continuò comunque negli anni seguenti: nel 1555 e nel 1556, una per anno, ben quattro nel 1557, due nel 1558 e una nel 1559.
Poiché, si sa, i guai non arrivano mai soli, nel 1557 era ritornato anche il signor Luca, il più acerbo oppositore della Comunità e ricominciarono le liti.
Le cose non erano cambiate: la Comunità chiedeva che pagasse la sua parte delle taglie e lui rifiutava con arroganza, esattamente come prima.
Questo suo rifiuto ad oltranza pare fosse un cattivo esempio anche per altri signori che si ritiravano nei loro castelli chiudendo l’uscio in faccia al messo che portava l’ingiunzione.
Si racconta che il signor Manfredo fosse andato ad abitare nel suo palazzo a Castellino Tanaro, lontano da San Michele, così molesto per lui. Il messo, tenace, salito a Castellino per cercarlo incontrò una delle giovani figlie del marchese e gli chiese di suo padre. La ragazza confermò che si trovava nel castello ma la madre, che li aveva uditi dal loggiato, rimproverò la figlia con queste parole: “Non sai che se anche il padre è in casa tu devi sempre rispondere che non c’è?” e con notevole faccia tosta disse al messo che il signor Marchese era assente.
Ancora più arrogante e ostinato era il signor Luca. Il messo salì più volte al castello per cercarlo ma non ottenne mai udienza. Alla fine, seccato, il marchese uscì dal castello e per sfida attraversò a cavallo le vie del paese dirigendosi alla volta di Fossano.
Per risolvere la questione delle decime, il sindaco di San Michele chiese la nomina di un commissario.
Così fu fatto ma durante un’ udienza i marchesi si opposero dichiarando sospetto il commissario e sospettissimo il segretario. Nella relazione del segretario si legge testualmente: “I signori marchesi allegano con giuramento che il signor commissario e che io stesso quale segretario siamo persone sospette, anzi sospettissime; allegano che io segretario sono tenuto alle decime verso essi Signori e che possedendo io terre in San Michele sono tenuto alle suddette decime. Così vogliono che, trattandosi di mio vantaggio o danno, io debba essere allontanato da questo mio ufficio e vogliono che con me sia allontanato lo stesso signor commissario, perché è mio parente, perché la comunità e gli uomini di San Michele ricorrono spesso a lui. Aggiungono i Signori che per loro sono sospetti, anzi sospettissimi tutti gli abitanti di San Michele perché tutti si rivoltano contro gli stessi loro Signori e cercano libertà”.
A questa lite per le taglie se ne aggiunsero altre: per lo statuto del segretario, per i forni, i molini e le decime: insomma, si bisticciava su tutto in un clima di irritazione e reciproco sospetto.
Si continuò a litigare con i Marchesi anche se ormai la questione era risolta: i Marchesi venivano condannati a pagare ma poiché si rifiutavano, le loro terre venivano messe all’incanto. Così avvenne per un buon numero di Signori Marchesi e così avvenne anche per il Signor Luca, nonostante la sua ostinatezza.
Finalmente giunse l’anno della pace, il 1559, e con il celebre trattato di Castel Cambresi, i nostri paesi vennero restituiti al legittimo sovrano, il duca Emanuele Filiberto.
Con il suo saggio governo si pose rimedio a molti mali e il primo giugno 1563 si trovò un accordo amichevole che pose fine alla controversia tra i Marchesi e la Comunità.
Le continue taglie militari che, come si prevedeva, non sarebbero cessate così presto erano state uno stimolo a perfezionare sempre più il catasto. Furono misurate di nuovo le terre e ogni terra fu quotizzata secondo la propria qualità e bontà.
Dopo la conclusione della pace i dati raccolti vennero registrati in un volume dal notaio Quaglia di Mondovì che terminò il lavoro pochissimi giorni. Dopo tante guerre la pace fu registrata con gioia anche in questo libro del catasto.
Nel volume sono registrati i terreni degli uomini di San Michele, quelli dei Signori e quelli della Comunità, della parrocchia, delle cappelle, dell’ospedale.
Dal catasto si può quantificare la popolazione verso il 1559 che porterebbe a circa 250 famiglie e mille duecento e cinquanta residenti.
La maggior parte della gente si occupava di agricoltura ma non mancavano persone dedite ad altre attività; c’erano notai, agrimensori, maestri, sacerdoti; molti erano anche i fabbriferrai, i falegnami, i muratori, i soldati. C’era chi si occupava di pesca e chi gestiva osterie e tra questi ultimi anche una donna.
La maggior ricchezza del paese proveniva dall’agricoltura anche se per la posizione strategica del luogo, sulla via principale tra Piemonte e Liguria, erano molti anche i commerci.
Fu in questi anni che nuove monete, come gli scudi e i fiorini, fecero la loro comparsa.
I terreni poi erano suddivisi in modo che la maggior parte delle famiglie ne avesse una parte: il villaggio costituiva così una vera comunità.
Il frastagliamento delle terre era proporzionato sia per ognuna delle tre principali borgate sia per la qualità delle terre, cioè prati, campi, vigne e castagneti. Degli undici signori e consignori di San Michele pochi sorpassavano in estensione di terre i più ricchi proprietari anche se in effetti i loro poderi erano tutti riuniti in un tratto solo di spazio e ovviamente nelle regioni più fertili.
Dai documenti giunti fino a noi si comprende la natura stessa degli abitanti di San Michele. Fin dall’inizio del secolo infatti si rivelarono piuttosto esperti nell’ adattarsi al mutamento delle condizioni.
Questa loro elasticità appare evidente nelle questioni delle taglie. Dapprima negoziarono amichevolmente con i Signori; quindi si curarono del registro dei beni per avere una guida giusta e facile e su questa base legale trattarono con fermezza contro tutti, anche contro i Signori.
Ebbero nello stesso tempo degli abili consiglieri in quanto non mancavano sul posto molte persone istruite.
Seppero anche destreggiarsi tra Francesi e Spagnoli che si contendevano il dominio sulle nostre terre: lo testimoniano la diplomazia usata con il governatore De Gordes e soprattutto con la sua signora.
La struttura amministrativa del villaggio continuava come per il passato.
A capo dell’amministrazione c’era il sindaco e accanto a lui tre estimatori con altri venti consiglieri, in tutto un consiglio di ventiquattro persone anche se in casi particolari venivano interpellati anche i capifamiglia.
Come già in precedenza, il Consiglio si rinnovava ogni anno, nell’adunanza del 21 dicembre.
Se l’amministrazione comunale continuò a governarsi secondo le antiche usanze, non avvenne così per la Chiesa.
Nel 1514 la chiesa parrocchiale di San Michele era retta dal Signor Carlo dei marchesi di Ceva. Nel 1519 il signor Carlo ottenne l’arcipretura della chiesa della Beata Maria in Ceva.
Poté conservare abusivamente, grazie alla sua amicizia con il Cardinale Bindinelli, anche il beneficio della chiesa di San Michele che venne aggregata a quella di Ceva e non ebbe più un suo rettore.
Alla gente di San Michele questa situazione non piaceva perché sminuiva la dignità della loro chiesa.
Per questa e per altre ragioni sorsero dei contrasti che con molta vivacità vennero portati avanti anche con i successori di Carlo
Questa situazione doveva durare soltanto quanto la vita dell’arciprete invece durò a lungo, per più di un secolo, sotto i suoi successori.
Nella seconda metà del secolo la giurisdizione del borgo di San Michele continuò ad appartenere ai Marchesi di Ceva ma apparvero sulla scena anche altre famiglie a causa di matrimoni con donne di questo casato,.
Ricominciarono per l‘ennesima volta le liti per le taglie e per le decime che si pensavano appianate con la convenzione del 1563. Questa volta la Comunità di San Michele ebbe la peggio e fu condannata a pagare.
Sempre in questo periodo sorsero dei contrasti con il confinante comune di Torre per le terre che gli abitanti possedevano nel territorio di San Michele.
I proprietari di Torre non si ritenevano obbligati a pagare alcune delle spese e si trovò un accordo che concesse loro un’ esenzione parziale. Furono dispensati dalle spese del maestro di scuola, del prete, dell’ l’olio delle lampade e dei medici.
L’antico diritto che consentiva agli abitanti di San Michele la prelazione sull’acquisto di terreni nel proprio distretto venne progressivamente a cadere in disuso.
Forse per le straordinarie spese delle lunghissime guerre servivano denari e le terre erano vendute a chi meglio si poteva, anche a forestieri. Le famiglie del paese si stavano impoverendo e le rendite della comunità diminuivano.
Si temeva che la popolazione diminuisse e che il territorio di San Michele cadesse in mano a gente forestiera. Questa eventualità preoccupava anche i marchesi perché in tal modo rischiavano di perdere le decime e le altre rendite non essendo i forestieri sotto la loro giurisdizione.
Si corse ai ripari nel 1572 e un consiglio generale fu convocato dinnanzi all’altare grande nella chiesa parrocchiale.
Erano presenti il marchese Galeazzo, a nome anche degli altri signori, il podestà, i consiglieri e i capi di casa.
Si rinnovò con maggior vigore lo statuto antico che autorizzava qualsiasi persona di San Michele a farsi avanti e recuperare un podere caduto nelle mani di un forestiero per qualsiasi motivo, anche di eredità.
Questa legge venne detta degli accorrimenti e non si pose limite di tempo: se ne aveva sempre facoltà.
La legge antica prevedeva anche che qualora si fosse scoperto un inganno o sotterfugio per impedire il riscatto, il podere andasse perduto per il forestiero: metà spettava al Marchese e metà andava a chi, di San Michele, lo volesse recuperare.
Nel nuovo statuto però questo privilegio del marchese non viene più menzionato ed è già un indizio dell’ indebolimento della sua autorità.
La comunità si preoccupava sia di mantenere la proprietà delle terre del distretto sia di renderle più fertili e una attenzione speciale era rivolta alla irrigazione.
Sulle acque sorvegliava il massaro e se occorreva un lavoro di pubblica utilità, venivano tutti convocati al lavoro mentre le spese generali erano distribuite tra tutti in proporzione.
Risale a questo periodo un’ opera che dati i tempi pare considerevole.
Uno dei canali costruiti in passato, quello della piana, scorreva prima lungo il ripido pendio delle Rocchette e poi lungo una roccia scoscesa detta del Peverato. Le ripetute frane di questa roccia tufacea e friabilissima erano causa di frequenti spese e di ritardi nell’irrigazione; si pensò di ovviare all’inconveniente scavando attraverso quella rupe una galleria lunga più di cinquanta metri e alta uno.
Ne assunse l’impresa un tal Pomerio Rosso ma poiché i Sanmichelesi, attenti come sempre, stimarono il lavoro fatto male il pagamento avvenne soltanto quattro anni più tardi dopo un accordo amichevole e dopo aver sperimentato le poco piacevoli vie dei tribunali.

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