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Descrizione

Mentre a San Michele si litigava per le decime con il marchese Manfredo, avvenne un fatto di considerevole importanza per i nostri paesi. Nel 1388 il papa Urbano VI elevò Mondovì al grado di città e la costituì sede di una estesa diocesi.
I confini di questa diocesi furono vagamente indicati tra il Tanaro e la Stura. La diocesi avrebbe dovuto quindi comprendere anche il borgo di San Michele che però ne rimase fuori fino al 1768.
Continuarono a vivere sotto il Vescovo d’ Asti tra la diocesi di Mondovì e la diocesi di Alba sia San Michele che una stretta zona di terre, tra le sponde del Tanaro e le Alpi che comprendeva Cigliè, Niella, Torre e Pamparato.
Il primo vescovo di Mondovì, Damiano Zoagli, si trovò subito coinvolto in una disputa tra Mondovì e Carrù per una terra che si estendeva verso il Beinale e nella contesa si trovò impigliato anche il Marchese Manfredo e i suoi fratelli per via del feudo di Carrù, avuto dai Conti di Savoia.
Il Vescovo definì la controversia emettendo una sentenza che fu nella maggior parte favorevole a Mondovì. Carrù accettò la sentenza ma non fecero altrettanto Manfredo e i suoi fratelli. Per ben due volte il Vescovo si recò nel loro castello per convincerli ad accettare le decisioni prese.

A quanto pare Manfredo aveva un’ indole meno malleabile del padre Oddone: gli scorreva nelle vene il sangue dei Marchesi di Saluzzo e questa differenza di natura riapparirà di quando in quando nei loro discendenti.
Il padre aveva favorito la gente di San Michele in alcune concessioni mentre il figlio Manfredo litigò spesso con il suo popolo, soprattutto per la questione delle decime.
La sua indole lo portò anche a scontrarsi con il Principe di Acaja. Nel 1396 Mondovì aveva abbandonato il Marchese di Monferrato per consegnarsi al Principe di Acaja ma non mancarono nella città i fedeli dell’antico signore. Uno di questi ribelli cercò rifugio nel distretto di Manfredo e questi, nonostante la richiesta di consegnare il reo, rifiutò seguendo ovviamente la sua indole poco malleabile.
Sul finire del 1300 e all’inizio del 1400 si verificò un intricatissimo groviglio di contese e di trattative tra i vari signori che governavano i nostri paesi: il marchese di Monferrato, Amedeo VIII di Savoia, il principe di Acaja e il governatore dello Stato orleanese. Una di queste contese tocca da vicino San Michele. Nel settembre del 1414 passava per il borgo il marchese Nicolò III d’ Este ritornando da un pellegrinaggio. A causa di una antica inimicizia fu preso prigioniero e trattenuto nel castello dai marchesi di Ceva. Udito questo fatto il Principe di Acaja radunò un esercito, mosse contro San Michele e liberò il marchese conducendo con se prigionieri i signori di Ceva.
Li rilasciò soltanto all’inizio di ottobre e solo dopo che lo ebbero riconosciuto per loro signore.
Come è purtroppo noto, la violenza genera violenza e non passò molto tempo che i marchesi di Ceva, istigati dagli orleanesi, si ribellarono al Principe. La sorte peggiore toccò a Niella, ripresa e saccheggiata dal Principe di Acaja che ne distrusse anche il castello. Non pare che la stessa sorte toccasse a San Michele anche se di qui era stata sprigionata la scintilla di quei tumulti.
Negli anni successivi comunque, anche San Michele subì molestie a causa delle contese, che continuavano, tra gli Acaja e i marchesi di Ceva, per acquisire e conservare i diritti su Carrù e Bastia. Il nostro villaggio, come anche Ceva e Asti, rimase comunque, e per tutto il 1400, sotto il Duca di Orleans e seguirono tempi di quiete e di progresso. La comunità di San Michele venne migliorando le sue condizioni mentre la sua chiesa continuò a godere pacificamente dei suoi antichi diritti.
Governava la Parrocchia, col titolo di Rettore, il Signor Bartolomeo, della famiglia dei Marchesi di Ceva mentre signoreggiavano su San Michele i fratelli Enrico, Rolandino e Marco, tutti figli del marchese Manfredo. Come il loro avo Oddone, furono benevoli verso i sudditi e la comunità prosperò.
Nel 1443, dopo aver convocato il consiglio del comune di San Michele, si stabilì che ogni persona di San Michele potesse derivare l’acqua da qualsiasi torrente o rivo scorrente nel territorio per portarla a qualsiasi prato nei confini della comunità, senza distinzione o condizione di persone. San Michele ottenne così quasi pieni diritti sull’uso delle acque.
Fu questo un bel cambiamento per tutta la gente di San Michele perché si vennero sempre più eliminando le disparità tra persone e persone, tra proprietà e proprietà.
Molte opere di pubblica utilità testimoniano la concordia e la pace che regnavano in quel tempo nella comunità.
Per riparo o ricovero di attrezzi sorsero qua e là nelle campagne alcune costruzioni o cappelle. Col tempo alcuni di questi edifici si abbellirono con pitture di Madonne e Santi e furono destinate al solo uso di religione.
Queste chiesette erano disposte attorno al villaggio, quasi a sua protezione, in due linee: una all’esterno, in aperta campagna e una seconda più o meno vicina alle principali entrate del paese.
A ponente, sui colli verso Vico e Briaglia, sorsero le cappelle di San Giovanni e San Giorgio; nella valle verso Ceva la Madonna della Piana e sulle alture verso Mombasiglio San Protasio e San Paolo.
Presso le entrate del villaggio stavano le chiesette di Santa Margherita e della Madonna di Guarene.
San Bernardino era in alto verso Niella mentre in basso, sulle ripide sponde del Corsaglia, c’era San Sebastiano.
L’antica chiesa parrocchiale e San Bernardo si trovavano invece presso il ponte.
Alcune di queste cappelle sono ora scomparse ma molte sono sopravvissute e conservano ancora alcuni graziosi dipinti che risalgono appunto a quel periodo.
Queste piccole costruzioni non presentano oggi l’aspetto che avevano in origine perché nel 1700 furono restaurate e ingrandite. La loro primitiva architettura fu assai semplice e consisteva in una specie di portico aperto sul davanti e l’arco a sesto acuto corrispondeva ad una parete opposta di eguale disegno. Queste due parti si congiungevano ai due lati per mezzo di due pareti, rettangolari o ad arco anch’esse a seconda della copertura fatta con il solo tetto o con una volta di eguale stile.
Questa forma antica si distingue nettamente, in mezzo alle aggiunte posteriori, nelle cappelle di San Sebastiano e della Madonna della Piana.
Queste due cappelle conservano ancora oggi dei dipinti notevoli sia per la loro antichità che per la loro bellezza.
Nel San Sebastiano un’immagine molto chiara è del 1496 (e quindi più antiche ancora sono le altre pitture) mentre nei dipinti della Madonna della Piana, forse anche più belli, non si legge l’anno in cui fu decorata ma alcune incisioni portano all’inizio del 1500.
La loro maggiore antichità è attestata in ogni caso dalla rassomiglianza con i dipinti del San Fiorenzo di Bastia. Una stessa mente li ideò di certo e una stessa mano li descrisse anche se quelle della Madonna della Piana, svolgendosi in uno spazio più ristretto, offrono minore movimento nelle figure ma, si può dire, maggiore concisione ed efficacia.
Le figure del San Fiorenzo risalgono al 1472 e furono dipinte per ordine di un signore Della Torre, forse della stessa famiglia che ebbe qualche giurisdizione anche in San Michele.
Un’altro dipinto, la Madonna della Merea, che si trova sul muro di un viottolo verso il castello, appare molto antica ed ha una notevole rassomiglianza con le antiche pitture bizantine.
La seconda metà del 1400 fu caratterizzata dalle contese dei Rettori della Chiesa con i Marchesi in merito ai diritti sui molini e sulle decime.
I molini originari erano situati presso la cappella di San Bernardo, sulla sponda destra del fiume, ma già all’inizio del 1400 pare non esistessero più. I molini oggetto della contesa, sempre di proprietà dei marchesi, erano situati più in su, quasi di fronte al ponte antico.
Fu concesso ad alcuni consignori di costruire altri molini, originariamente congiunti a quelli già esistenti, ma poi abbattuti perché pare provocassero disturbo nella macina e nella distribuzione dei proventi.
Ne nacque una lite tra i consignori, ognuno di essi proprietario di una parte di territorio.
Quando nel 1463 si giunse ad un accordo, i nuovi molini furono abbattuti per essere ricostruiti pare più in su ancora, verso la strada che saliva a San Paolo.

Prima di intraprendere i lavori questi signori dovettero comunque prendere accordi sia con la Chiesa sia con la Comunità di San Michele in virtù dei precedenti diritti sul molino e sulle decime originati dalle antiche donazioni e dagli statuti del 1338 e del 1443.
Verso il 1464 si ebbero così due molini che in quei tempi di pace lavoravano entrambi sempre rispettando i diritti della Chiesa.
Nel 1494, con la calata dei Francesi, finì per l’Italia il bel tempo di pace.
Ebbe inizio una lunga serie di sventure e maggiormente ne soffersero molti paesi del Piemonte che si trovavano sul passaggio degli eserciti nemici. Più ancora ne soffersero la contea di Asti e il marchesato di Ceva che già vivevano sotto la casa francese degli Orleans e ben presto si trovarono a far parte del regno di Francia.
Il grave disordine causato dalle guerre non risparmiò il nostro piccolo villaggio come sottolinea il dissidio che si accese tra il Rettore della Chiesa e i Marchesi di Ceva.
Quando iniziò la guerra i molini deperirono e i Marchesi, sudditi del re di Francia Luigi XII, sia per gli obblighi comuni sia per quelli propri dei Signori feudali, si trovarono anch’essi in ristrettezze e presero a trascurare i doveri verso il Rettore della Chiesa.
In sostanza non gli consegnavano più la sua parte dei proventi del molino e delle decime.
All’inizio il Rettore reclamò i suoi diritti in modo cortese ma ne ottenne solo scuse e pretesti e i marchesi giunsero a chiedere al Rettore di concorrere alle spese dei restauri dei molini.
Questi rifiutò e i Marchesi arrivarono poi a negare ogni diritto della Chiesa sui molini.
Il Rettore oppose buone ragioni ma dovette ricorrere al tribunale ecclesiastico che in risposta inviò alcune lettere monitoriali con l’ordine di far esaminare accuratamente i fatti da un commissario.
Questi indagò presso ogni persona che poteva testimoniare dei diritti preesistenti all’ acquisto del castello di San Michele da parte dei Marchesi di Ceva.
La lite infiammò l’ animo dei Marchesi che, esasperati, giunsero al punto di aggredire verbalmente il Rettore con bestemmie e minacce di morte.
Nel frattempo il commissario ecclesiastico compì i suoi esami che risultarono favorevoli alla Chiesa, grazie anche alle testimonianze dei mugnai stessi.
Più malleabili furono Il marchese Giovanni Oddone e i suoi fratelli Carlo e Antonio che coinvolti nella spinosa questione fecero in parte causa comune col Rettore anche perché il deperire dei molini danneggiava i loro stessi interessi.
Il marchese Giovanni Oddone fece ricerche diligenti nell’archivio di famiglia e vi trovò copia dell’ antica donazione del 1113 ed altre carte ancora che attestavano chiaramente i diritti della chiesa.
La lite si prolungò fino al 1501 quando finalmente le parti in causa trovarono un accordo. I marchesi accettarono di restaurare sia i molini vecchi che quelli nuovi, di risarcire alla chiesa quanto dovuto per gli anni passati e di concedere alla chiesa la quarta parte dei frutti dei molini vecchi e nuovi.

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