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Descrizione

Il casato dei marchesi di Ceva aveva oramai fermamente stabilita la sua signoria sulla villa di San Michele e venne progressivamente prevalendo anche sui vescovi d’ Asti.
Si mantenevano comunque intatti i diritti di quella chiesa che furono rispettati anche dalla Casa d’ Angiò e da quel Carlo che divenne poi Re di Napoli e così potente in Piemonte.
Gli accordi intercorsi tra Mondovì e il marchese Giorgio durarono a lungo e come emerge dall’ atto di alleanza con il Comune di Asti, la comunità della villa di San Michele era, a quei tempi, saldamente costituita, ordinata e bene amministrata.
La gente di San Michele seguì, come già fece con Giorgio Nano, anche il figlio di lui Giorgio III, padre del marchese Oddone che confermò poi gli statuti della comunità nel 1332.
La facoltà degli uomini di San Michele di godere di una amministrazione propria e di alcuni diritti speciali risale comunque a tempi molto anteriori. Le parole dello statuto provano che già prima del 1332 esistevano libri e normative e una amministrazione che li ordinava. Questi statuti, confermati e perfezionati con gli anni, lasciano intravedere come la comunità e specialmente i lavoratori delle terre venissero gradualmente migliorando le loro condizioni, anche se resistevano alcuni degli antichi vincoli sulla proprietà.
Il marchese Oddone diede origine alla famiglia dei Marchesi di Ceva e di San Michele. Il paese, acquistando così un maggiore prestigio, diede poi il nome a uno dei “donzeni” ossia ad una delle dodicesime parti in cui era suddiviso tutto il marchesato.
Le sorti di Ceva e quelle di San Michele rimasero strettamente legate per alcuni secoli mentre la Chiesa rimase unita alla diocesi di Asti nonostante Ceva appartenesse a quella di Alba.
Nel villaggio e nelle campagne sorgevano chiese e altari: verso i monti forse esisteva la chiesetta di San Protasio e, dentro la villa, la chiesetta di San Magno.
La chiesa principale si trovava su di un poggio presso il ponte sul Corsaglia, mentre, poco più indietro stava un’ altra chiesa, fuori mano rispetto al centro del paese, per accogliere anche la gente delle case sparse per la valle e per i colli.
Il Marchese che aveva la giurisdizione sulla villa di San Michele; aveva l’autorità di giudice e amministrava la giustizia, secondo le norme contenute negli statuti e con un’autorità piuttosto estesa. Aveva il diritto di giudicare le cause in prima e seconda istanza e lo esercitava per mezzo di un Ministro da lui eletto e designato con il nome di Rettore.
Come giudice esercitava la giustizia e come magistrato supremo dirigeva e aiutava l’amministrazione comunale. In questo compito veniva aiutato da alcuni ufficiali della comunità che con lui componevano la cosiddetta curia. Il primo di essi era lo scriba, o scrivano, eletto dal consiglio degli uomini di San Michele che costituì un bel privilegio della comunità rappresentando un argine contro la assoluta autorità del marchese.
Altri ufficiali eletti dalla comunità, ossia il decano, il campario, gli estimatori facevano parte della curia e aiutavano il rettore nell’amministrazione della giustizia. I Campari in particolare avevano il compito di custodire tutte le terre, sia quelle del Signore che quelle della comunità e dei singoli proprietari.
La loro elezione avveniva dinanzi a tutto il popolo radunato (coram populo convocato).
Non si conosce, dagli statuti del 1332, né il numero né il tempo e modo dell’elezione dei consiglieri ma da documenti di poco posteriori si può ritenere che fin da allora i consiglieri fossero ventiquattro e che il consiglio si rinnovasse per intero verso il 21 dicembre di ogni anno.
Nelle questioni di maggior rilievo venivano convocati anche i consiglieri dell’ anno precedente e a volte tutti i capi famiglia.
Sulla base degli Statuti e sotto l’autorità feudale dei marchesi di Ceva, che signoreggiavano dall’alto del loro castello, la comunità godeva di una vita sempre più saldamente costituita e ordinata.
Leggendo gli statuti del 1332 di tanto in tanto balza fuori qualche singolarità sul modo di vivere e sugli usi degli abitanti di San Michele.
A quel tempo le discordie maggiori erano tra paese e paese, come mondi estranei l’uno all’altro. Gli stessi Marchesi di Ceva avevano diviso il marchesato in tante parti quante erano le loro famiglie, non sempre amiche tra loro.
Ogni terra quindi si fortificava vivendo nel timore di essere aggredita e si esercitava regolarmente negli assalti e nelle difese. Anche a San Michele nascevano queste guerricciole tra borgata e borgata e si combattevano le cosiddette battagliole nelle quali per lo più le pietre servivano da armi.
Il campo preferito di quelle gare pare fosse la regione dei Cengi, una collina circolare, ripida, coltivata a vigne a levante del Castello. A metà dell’altezza si trova una cintura di rocce, come muri di una fortezza e appunto per tale somiglianza ospitava queste battaglie che non di rado si rivelavano sanguinose e quindi proibite anche se solo teoricamente.
Nonostante queste scaramucce, si manifestava un grande rispetto per la religione, per il riposo festivo, per i genitori, per la donna e per la parola data. Venivano puniti i reati di percosse, calunnie, bestemmie, furto, insulti. Lo statuto ne parla in modo dettagliato assegnando ad ogni reato la diversa punizione.
La bestemmia, per fare un esempio, era punita in questo modo singolare: il bestemmiatore veniva condannato a cinque soldi per ogni volta che cadeva in fallo. Se non pagava era condannato a tante bastonature quante era possibile assestargliene nell’attraversare la piazza per tutta la sua lunghezza. Nei contratti era sufficiente una stretta di mano, un’ alzata di mano o una parola e il contratto era valido.
Anche il gioco era molto amato: si ricordano i tavolieri, i dadi, le biglie.
Per quanto riguarda il commercio, c’era sicuramente un certo movimento a causa della via molto frequentata che attraversava il territorio; si teneva anche, con una certa regolarità, un mercato sulla piazza del villaggio. C’erano in paese alcune piccole industrie: della canapa, dei canestri, della tessitura, della caccia e della pesca ma era l’agricoltura la fonte prima di sostentamento.
Si aveva cura degli alberi e dei frutti, il danneggiamento e il furto erano puniti ma con una certa tolleranza si permetteva di cogliere frutti che cadessero sul proprio podere purché i frutti maturi cadessero da sé. Si potevano cogliere legumi altrui fino a piena una mano e di castagne si concedeva di raccoglierne tante da riempire il cappuccio del mantello.
C’era attenzione per gli animali domestici, buoi, cavalli, asini, pecore, anitre e, cosa molto bella, veniva punito chi commetteva atti crudeli, come percosse e mutilazioni, nei loro confronti.
Già a quei tempi si parlava qualcosa di molto simile al nostro dialetto: ne sono esempio alcune parole come “geria” la ghiaia, “gromiolo” il mucchio di fieno, “ania” l’anatra, “fenare” lo smuovere il fieno per essiccarlo, “castagnare” il raccogliere le castagne.
Nel tempo in cui il Marchese Oddone confermò gli statuti di San Michele il marchesato di Ceva era già diviso in molte piccole Signorie, tante quante erano le sue famiglie, e una di esse si stabilì anche nel nostro paese con il Marchese Oddone.
Queste diverse famiglie signoreggiavano nell’alta valle del Tanaro, fin verso Bastia e Carrù, nella vallata inferiore del Corsaglia e in quelle del Mongia e del Casotto. Attorno al marchesato di Ceva si stendevano altri staterelli più o meno forti e verso occidente si trovava quello di Mondovì, prima in libertà comunale e successivamente sotto la protezione della Casa di Angiò che regnava in Napoli e in Provenza.
Più lontani stavano i Visconti, Signori di Milano, i Marchesi di Monferrato, i Principi di Acaja, i Conti di Savoia e tutti, più o meno, fecero sentire la loro presenza nei nostri paesi. Tra l’uno e l’altro di quei molti Stati ci furono in quei tempi molti contrasti e molte guerre interrotte da brevi paci o tregue.
I marchesi di Ceva, in quelle continue guerre, si appoggiavano e si alleavano ora a questo e ora a quello dei contendenti.
A volte assecondavano anche i desideri delle loro popolazioni, per mantenerli fedeli e rendere più saldo il loro potere. Per questo fine anche il Marchese Oddone dopo aver confermato lo statuto del 1332 ne confermò altri, alcuni dei quali piuttosto importanti.
Uno di questi statuti ricorda l’uso delle acque dei fiumi, un tempo riservato solo ai Signori per diritto feudale.
Pare che la comunità degli abitanti, per antica consuetudine o per concessione, già godesse di qualche diritto sulle acque; il massario (colui che aveva cura del ponte), per esempio poteva appropriarsi dei tronchi che il Corsaglia avesse lasciato sulle rive.
La comune utilità, come era quella del passaggio sul ponte, prevaleva o almeno venne con il tempo a prevalere sui diritti assoluti di certi Signori.
Il mutamento che si stava introducendo nelle proprietà dei terreni portò poi ad altre concessioni. Le terre stavano progressivamente passando nelle mani dei privati e di conseguenza anche quanto serviva a migliorarle, come l’uso delle acque.
Nel 1338 il Marchese Oddone approvò uno statuto che concedeva a ogni persona di San Michele il diritto, di cui godevano già le terre comunali, di derivare le acque del Corsaglia anche attraverso i possedimenti di altre persone, purché risarcissero i danni eventualmente provocati.
Una così bella concessione fu di grande vantaggio per la gente di San Michele che iniziò subito a costruire canali favorendo così il miglioramento dell’ agricoltura avvantaggiando non solo se stessi ma anche i suoi Marchesi.
In questo periodo avvennero nel nostro Piemonte notevoli mutamenti di Signorie e, nel 1351, Ceva seguì la sorte di Asti caduta sotto la Signoria dei Visconti di Milano liberandosene comunque pochi anni dopo.
Tra i valorosi che aiutarono tale impresa si distinse anche Oddone, signore di San Michele.
Decadendo la casa dei Re Angioini di Napoli, l’amicizia dei marchesi di Ceva fu ricercata dai signori dei domini vicini come il Marchese del Monferrato e lo stesso Amedeo di Savoia. Un altro potente Signore, Giovanni Galeazzo duca di Milano che aspirava al dominio di tutta l’Italia, cercò l’amicizia dei grandi feudatari delle Langhe. Tra quelli che prestarono fedeltà a questo duca ci fu anche Manfredo, signore di San Michele.
Nel 1379 Asti passò sotto il Visconte Duca di Milano e nel 1387 sotto la casa di Orleans. Ceva ne seguì la sorte ma non senza resistenza.
Dapprima Manfredo signore di San Michele si oppose con altri dei Marchesi, poi però si assoggettò e sostenne il nuovo signore.
Per San Michele non mancarono quindi le occasioni per aspirare a nuove franchigie o altri alleggerimenti di tributi per gli aiuti dati in queste contese. I marchesi avevano fatto concessioni prima alla città di Priero e poi a quella di Ceva, seppur a quest’ultima con riluttanza, dopo alcuni tumulti, e con l’ intercessione del Duca di Orleans.
Questi fatti fecero ben sperare la gente di San Michele che desiderava l’abolizione delle decime sull’esempio di altre comunità. Quando le loro speranze furono deluse, la comunità tenace ricorse alle vie legali.
La controversia durò vivace per qualche tempo. Si concluse nel 1389 quando gli arbitri (nominati da entrambi i contendenti) emisero un verdetto non favorevole a San Michele che già godeva di altri privilegi.
Dal documento redatto dopo l’adunanza convocata per la nomina degli arbitri (parteciparono anche più dei due terzi dei capi famiglia) risulta che a quei tempi le famiglie di San Michele erano 150 e circa un migliaio il numero della popolazione.
Procedendo nella storia la questione delle decime si ripresenterà più volte tra i Marchesi e la chiesa e tra i Marchesi e gli uomini di San Michele.

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